mercoledì 17 luglio 2013

Critica fusion



Da qualche anno, per lungo andare e frequentazioni discutibili con i libri, sarà capitato a qualcuno di patire lo sperpero maligno, quel particolare stato dell’animo che ti inclina a chiedere a cosa sia servito studiare i lirici greci o metti la letteratura russa. Questa sovrabbondanza, così difficile da collocare nel tuo piccolo selciato. 

Se questo qualcuno poi è un insegnante la situazione peggiora, perché non ci sarà studente, non ci sarà lezione in cui questa domanda non assumerà le proporzioni del cadavere nella stanza del dramma di Ionesco. Andrà crescendo ogni giorno, fin quando non riempirà di funghi e muffa ogni parete. 

I critici letterari si tengono lontani dal quesito, troppo impegnati a passeggiare per i boschi narrativi o a raccontare le prodezze della sineddoche in Balzac. Un’accademia ha costruito un mercato esclusivo, per pochi eletti, che rende piuttosto bene e che crea status. Dove la letteratura, quando serve, è un microscopio di passioni tristi e le antologie una clinica per cronici depressi. 

Per me, un solo giorno trascorso a scuola così discettando e ne uscirei viva come il corpo di Cesare tra le mani dei sicari. Motivo non indifferente per cui la critica mi diventa meticcia e pasticciata. Contaminazione, se vi piace.  Un luogo che si attraversa, un solo paesaggio urbano e globalizzato, dove non è possibile separare le favole di Esopo dall’abuso edilizio, dove le rime baciate si comportano come rifiuti tossici, la metonimia vuol dire zingaro e frontiera. 

Davanti ai miei studenti mi è più incline la critica dei misti, che predilige la tradizione orale a quella scritta. Funziona come i baracchini dello street food che i ragazzi conoscono per messaggio, perché altri ne parlano bene, perché un amico li frequenta.  Passando parola. Si vuole sapere che ti ha provocato un testo, che nutrimento ne hai avuto, il qualcuno di significativo che vi hai conosciuto o l’avventura che ti ha cambiato per sempre la vita. Il testo ha mille testi, perché mille e più sono le sue letture. 

Di voce in voce il suo punto di partenza non è il brano narrativo, ma il narcotraffico e gli abusi del cibo. E’ critica impura, presenta lo stile di Flaubert come un eccentrico esempio di bulimia alimentare, le poesie di Tennyson come un vero e proprio caso di coltivazione da oppio. Ben lontana da trattare la letteratura come se fosse un’isola, astrazione, una deriva matematica. 

Perché poi la meraviglia che gli studenti non amino la scuola? Architettura divisa e frammentata in compartimenti stagni: l’ora di chimica, di religione, di fisica, di inglese. L’identità si spezza, perché non facciamo critica ecologica, praticantato in grado di invadere i campi semantici. Un modo di leggere che non usi più la fisica euclidea, di linee parallele e che mai si incontrano, per descrivere i fenomeni letterari, ma teoremi geometrici, casi botanici, eventi politici e pratiche economiche. 

L’analfabetismo culturale, dopo quello di base (saper leggere e scrivere) e quello lavorativo (avere competenze in grado di svolgere una professione), è stato definito come l’incapacità di interpretare e capire il proprio ambiente. E’ analfabetismo culturale non saper comprendere una sigla come CGIL o ignorare cosa sia una commissione parlamentare. E’ da questi dati oggettivi che bisogna partire per capire qualcosa di Socrate. Non il contrario. 

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