martedì 9 luglio 2013

Lingua, Terra dei fuochi






E’ curiosa. L’ingenuità con la quale pensiamo che il contagio di una deriva morale ed economica si fermi a certi livelli, senza coinvolgere altri aspetti della società. Il meccanismo, chissà interessato, con cui ci si illude che l’illegalità tocchi la politica, il sindacato, i partiti ma non la lingua che utilizziamo ogni giorno. 

Anche il codice linguistico ha la sua Terra dei Fuochi, la vasta area tra i comuni di Qualiano, Villaricca e Giugliano in Campania dove la camorra per anni ha versato rifiuti tossici, nella maggior parte provenienti dal nord e il cui nome si deve ai cumuli di sostanze nocive che vengono incendiati ai bordi della strada. O meglio ne possiede la logica perversa. 

Ciò accade quando anche la lingua produce residui pericolosi e, trovandosi nell’impiccio di eliminare le sue scorie, innesca processi di rimozione per sotterrarli lontano dai propri confini. Quasi fosse inevitabile alla materia umana produrre rifiuti, quello stato particolare delle cose che potremmo definire: la natura critica degli oggetti. 

Prendiamo la parola “ lavoro” che, in un certo periodo storico, aveva alcuni significati nella lingua italiana: base della Repubblica, dignità, salario, diritti. E si portava dietro le sue correlate metafore di antagonismo: l’emigrazione, le fabbriche del nord, la Svizzera, Piazza Fontana. Cosa può significare “ lavoro” oggi dopo i fatti dell’IlVA, i barconi di Lampedusa, i licenziamenti, le fabbriche dismesse e rimontate in Cina, i mercati metafisici del denaro? Spesso una parola di cui vergognarsi e difficile da immaginare come principio portante di una qualsivoglia repubblica. 

Se la lingua si modifica, anche la critica linguistica dovrebbe cambiare in perfetto stile casalese, adibito ai rifiuti. Ammettere che non c’è più frattura tra i propri domini e lo stile pacchiano con cui il capo clan Schiavone Sandokan aveva arredato la sua villa tra ori, specchi e vasche tardo impero.

E inoltre bisogna attrezzarsi per i contagi e le malattie. La critica è contaminata, inquinata, tossica ma non per colpa sua. 

E' impura perché sa di muoversi in un ambito in cui il personaggio dello stakeholder descritto da Saviano, laureato, buona presenza, specializzato in politiche dell’ambiente che sa come trattare i rifiuti tossici, come aggirare le norme, come proporre alla comunità imprenditoriale lo smaltimento dei liquami a basso costo e in modo illegale, è qualcosa di più di una figura legata alla criminalità. 

Col tempo ho imparato a vedere con gli occhi di uno stakeholder. Uno sguardo diverso da quello del costruttore. Un costruttore vede lo spazio vuoto come qualcosa da riempire, cerca di mettere il pieno nel vuoto, gli stakeholder pensano invece a come trovare il vuoto nel pieno. 

Lo stakeholder è anche un arbitrio stilistico. Una figura retorica per una lingua che rimuove, che si fa complice e non dice più nulla. Di una malattia che è linguistica ma solo perché è riflesso di una realtà sociale: sindrome del vuoto nell’apparente pieno.


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